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Donne e pensioni: il divario che la leadership femminile non basta a colmare (Di Yuleisy Cruz Lezcano)

DiRedazione

Nov 10, 2025

In un’epoca in cui i temi della parità di genere guadagnano crescente centralità nel dibattito pubblico, un indicatore poco citato ma di grande rilevanza emerge come cartina di tornasole della disuguaglianza economica: il Gender Overall Earnings Gap (GOEG). A differenza del più noto divario retributivo orario (il Gender Pay Gap, GPG), che misura la differenza tra le retribuzioni orarie medie tra uomini e donne, il GOEG raccoglie anche altri elementi cruciali: il minor numero di ore lavorate da donne (compresi i lavori parttime), il loro tasso di occupazione più basso e la presenza in settori meno remunerati. Secondo il rapporto Eurostat del 2018, l’UE registrava un GOEG medio del 36,2 %.

In Italia, il dato è ancora più allarmante: per lo stesso anno o per l’ultimo dato disponibile, il GOEG raggiungeva valori attorno al 43 %. Ciò significa che, tenendo conto delle ore lavorate, della partecipazione al lavoro e delle retribuzioni, una donna in Italia guadagna in media molto meno di un uomo, non per un unico fattore ma per una combinazione sistemica di svantaggi. Quali sono le implicazioni? Innanzitutto, il fatto che il GPG (differenza oraria) possa apparire limitato – in Italia, ad esempio, il GPG orario per il 2018 risultava intorno al 6,2% secondo dati ISTAT. Ma un divario così apparentemente contenuto non racconta l’intero quadro: se molte donne lavorano meno ore, accettano contratti parttime, interrompono la carriera per cura familiare, o accedono a lavori meno retribuiti, il loro guadagno complessivo annuale resta significativamente inferiore. Il GOEG mette in luce proprio questi aspetti, evidenziando come la disparità sia strutturale e non solamente una questione di salario orario.

In seconda battuta, questo fenomeno ha conseguenze a lungo termine: minore autonomia economica per le donne, minore capacità di risparmio, pensioni più basse, maggiore vulnerabilità di fronte a periodi di crisi o a situazioni di violenza economica e dipendenza. Una società in cui la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è inferiore o penalizzata provoca una perdita complessiva di potenziale economico e sociale.

Analizzando i fattori che contribuiscono al GOEG, troviamo: la segregazione verticale e orizzontale nei settori produttivi (le donne sono sovrarappresentate nei servizi, nella cura, nell’istruzione, che generalmente pagano meno); l’alto tasso di parttime femminile; e l’interruzione o la riduzione dell’attività lavorativa legata alla cura della famiglia. In Italia, ad esempio, intervalli di riduzione del salario orario, contratti temporanei, parttime involontario sono ben documentati nell’indagine ISTAT per il 2018.

Il dato assume anche una forte valenza simbolica: mette in evidenza che pur se molte iniziative riguardanti la retribuzione oraria ottengono visibilità (leggi, direttive europee, trasparenza salariale), la vera disparità è nel risultato complessivo di carriera e occupazione, che resta ancora fortemente sbilanciato. Ridurre la distanza solo sul piano orario non è sufficiente: occorre intervenire su partecipazione, ore, tipo di contratto e ruoli dirigenziali.

Infine, il dato impone una riflessione anche sul piano societario e culturale: la disparità economica femminile non è solo una questione di salari, ma è intrecciata con la cultura del lavoro, con i modelli relazionali familiari, con la dedicazione delle donne alla cura non retribuita e con una struttura maschile del potere economico.

In Italia le donne ricevono pensioni significativamente più basse rispetto agli uomini. Secondo i dati più recenti dell’INPS, nel 2024 la pensione media mensile per un uomo era di circa 2.142 €, mentre per una donna era di circa 1.595 €, con un divario del 34%. Inoltre, nel primo trimestre del 2025 le nuove pensioni liquidate per le donne risultavano in media del 31,97% rispetto a quelle degli uomini. Questo divario non è semplicemente una questione di salari orari o di numero di ore lavorate, ma riflette più ampie disuguaglianze: le donne lavorano più frequentemente con contratti parttime, hanno carriere interrompibili legate alla cura familiare, sono più presenti nei settori meno remunerati e hanno meno tempo contributivo accumulato. In questo senso, il sistema pensionistico diventa una sorta di “fotografia finale” della discriminazione economica e professionale accumulata. Dietro questi numeri c’è una struttura culturale che possiamo definire patriarcale. Questo modello viene interiorizzato — anche da molte donne — e viene riprodotto quotidianamente nelle scelte di carriera, nei ruoli familiari e nella percezione sociale del valore del lavoro femminile. Ad esempio, se molte donne scelgono “lavori più flessibili” per conciliare la famiglia, questo può essere una scelta legittima, ma che nasce in un contesto in cui la cura non è redistribuita e il sistema non valorizza pienamente il contributo femminile.

In questo contesto emerge anche una riflessione sull’essere “donna al potere”. Giorgia Meloni, che è diventata primo ministro d’Italia, rappresenta un esempio: la sua leadership dimostra che una donna può raggiungere i vertici. Tuttavia, alcune delle sue scelte politiche sono state criticate perché non sfidano il modello patriarcale ma lo riproducono. In più occasioni Meloni ha parlato della primarietà della famiglia tradizionale, della natalità, della maternità, più che dell’emancipazione femminile nel senso di parità economica e sociale. Ad esempio, ha dichiarato che “non c’è solidarietà tra donne” in termini generali e ha focalizzato la sua retorica sul “ruolo di madre”. Questo non significa automaticamente che la leadership femminile sia inutile, ma che non basta che a dirigere siano le donne: se queste non promuovono una trasformazione strutturale — se non sono “femministe”, nel senso di lotta per la parità reale — rischiano di mantenere lo status quo. Il risultato è che le donne rimangono penalizzate: anche quando ricoprono ruoli elevati, se non cambiano le regole del gioco, la piramide patriarcale rimane in piedi. Le pensioni più basse per le donne, la minore partecipazione al lavoro stabile, la maggiore interruzione professionale e l’accumulo contributivo ridotto sono tutte conseguenze di un sistema che non viene davvero scardinato.

Di Redazione

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