Roma, 13 novembre 2025 – Il lavoro in Italia continua a mietere vittime, spesso in silenzio. Antonio Tomassetti, 58 anni, piccolo imprenditore edile di Rieti, è morto martedì 11 novembre al Policlinico Gemelli, dopo il cedimento di una copertura durante un sopralluogo a Roma. Lo stesso giorno, Daniele Giordano, 61 anni, operaio manutentore della Sirti, ha perso la vita in un incidente stradale con il furgone aziendale ad Alessandria. Poche ore prima, Giuseppe Patisso, 47 anni, titolare di una paninoteca in Puglia, si è spento improvvisamente nel suo locale. Tre storie diverse, un filo comune: il lavoro che uccide, spesso quando meno ce lo si aspetta. I numeri sono tragicamente eloquenti. Solo a novembre 2025 si registrano 34 morti sul lavoro (30 in sede, 4 in itinere), con una media giornaliera di 2,8 vittime. L’anno corrente conta 992 morti (791 in sede, 201 in itinere), con punte più alte in Lombardia (119), Veneto (107) e Campania (98). La sicurezza resta una priorità in tutta Italia, ma le statistiche mostrano quanto la legge da sola non basti.
La Legge 81/2008 e le sue successive integrazioni hanno creato un quadro normativo completo: formazione obbligatoria, valutazione dei rischi, dispositivi di protezione e figure dedicate alla sicurezza. Eppure, nella realtà quotidiana, essere “formati sulla carta” non è sufficiente. Molti lavoratori, per fretta, abitudine o distrazione, non percepiscono il pericolo fino a quando non è troppo tardi. Un corso di sicurezza non può sostituire lo sguardo vigile sul cantiere, la capacità di leggere i segnali del rischio, di intervenire prima che accada la tragedia. È qui che entrano in gioco arte ed emozione. Non basta compilare moduli o seguire protocolli: per cambiare davvero i valori di chi lavora, occorre colpire l’animo, stimolare la sensibilità. La tragedia, il dolore, la memoria delle vite spezzate possono diventare strumenti di coscienza, capaci di far percepire la fragilità del corpo e l’importanza della sicurezza. Solo toccando le emozioni, solo rendendo il rischio visibile nel cuore, è possibile formare lavoratori che non si limitino a eseguire procedure, ma sappiano agire con attenzione e responsabilità.
Le famiglie rimaste senza i propri cari, come Monica Michielin per il figlio Mattia Battistetti, 23 anni, morto in cantiere a Montebelluna, sono il monito più concreto: la vita non è sostituibile. Ogni numero, ogni statistica, nasconde volti e storie. Ogni incidente è una ferita sociale che ci ricorda che la sicurezza non è un obbligo da rispettare solo per legge, ma un valore da interiorizzare. Di fronte alla fretta, alla distrazione e alla superficialità, la formazione tecnica deve incontrare la sensibilità dell’anima, solo così sarà possibile fare un passo verso un mondo del lavoro più sicuro, dove la vita ha peso reale e dove ogni gesto, ogni attenzione, può salvare un’esistenza.
La legge 81 del 2008 rappresenta una pietra miliare nella tutela della sicurezza sul lavoro in Italia, raccogliendo norme su formazione, valutazione dei rischi e responsabilità dei datori di lavoro. Tuttavia, l’esperienza quotidiana e i dati tragici lo confermano: avere la legge non basta. Nel 2025, quasi mille morti sul lavoro in Italia testimoniano quanto la norma, da sola, non possa salvare vite. Molti lavoratori seguono corsi e partecipano a formazione, ma la vera difficoltà sta nel trasformare la conoscenza teorica in percezione concreta del pericolo. Sapere cosa fare su carta non significa vedere il rischio davanti a sé, sentire il tremito di un ponte instabile o percepire l’ombra di un carico che può cedere da un momento all’altro. Qui entra in gioco la cultura, intesa come esperienza emotiva e artistica. L’arte ha il potere di far vibrare le corde dell’animo, di trasformare il rischio astratto in esperienza sentita, visibile e memorabile. Storie di chi ha perso la vita, installazioni visive, performance teatrali nei cantieri, fotografie che raccontano la fragilità del corpo umano al lavoro: tutto questo può agire come leva profonda nella coscienza del lavoratore, creando una percezione del rischio più autentica e duratura. Quando il pericolo smette di essere un numero su un foglio e diventa un volto, una storia, un gesto sospeso nel tempo, la normativa trova terreno fertile per essere rispettata.
Le imprese che limitano la sicurezza alla consegna dei moduli e all’uso dei dispositivi rischiano di ignorare il cuore del problema. Turni lunghi, stanchezza, abitudine e pressioni produttive fanno sì che il rischio venga spesso sottovalutato, anche da lavoratori esperti. In questo contesto, la cultura diventa strumento di prevenzione attiva: chi percepisce emotivamente il pericolo è più pronto a intervenire, a fermarsi, a rispettare procedure che altrimenti sembrerebbero astratte.
Esperienze immersive, come simulazioni in realtà virtuale o workshop artistici nei cantieri, hanno dimostrato come sia possibile aumentare la consapevolezza del rischio con modalità sensoriali ed emotive. Le emozioni attivano una memoria più profonda dei dati tecnici, e il rispetto della legge non rimane un obbligo burocratico, ma diventa un gesto consapevole, radicato in valori interiorizzati. In altre parole, arte e cultura preparano il terreno su cui la normativa può attecchire, trasformando la conoscenza in responsabilità.
La sicurezza sul lavoro, dunque, non è solo un insieme di regole o dispositivi, ma un terreno di esperienza condivisa tra legge, percezione e valori culturali. Solo se il lavoratore sente, vede e comprende il rischio, e se la società valorizza queste esperienze, la normativa può davvero salvare vite. In questo senso, le tragedie recenti, come quelle di Antonio, Daniele e Giuseppe, diventano moniti viventi, spingendo a considerare la prevenzione non solo come un obbligo legale, ma come un atto culturale ed etico che attraversa la vita quotidiana dei cantieri e dei luoghi di lavoro.
