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Un miliardo di infanzie ferite: la geografia globale della violenza (Di Yuleisy Cruz Lezcano)

DiRedazione

Dic 1, 2025

La cronaca degli ultimi mesi restituisce un’immagine inquietante della famiglia come luogo talvolta distorto, dove ciò che dovrebbe essere cura si tramuta in sopraffazione. I casi verificatisi in Italia, dalla madre di Isola Capo Rizzuto condannata per avere abusato dei figli minorenni alla tragedia di Muggia, dove un bambino di nove anni è stato ucciso dalla madre, non sono solo episodi isolati, ma frammenti di una realtà più ampia, che costringe a interrogarsi sul significato stesso di relazione familiare, responsabilità e potere.

Sociologicamente, la violenza domestica rappresenta un fallimento delle reti di protezione che dovrebbero circondare ogni individuo, specialmente i più vulnerabili. La famiglia, nella società contemporanea, è ancora investita di un’aura di sacralità: un luogo chiuso, spesso sottratto allo sguardo pubblico, dove ciò che accade viene percepito come “privato”. È proprio questa privatizzazione assoluta a rendere difficile l’emersione del maltrattamento. I bambini, gli anziani, le donne che subiscono violenza tra le mura domestiche vivono in un contesto dove il legame affettivo si trasforma in vincolo, e il vincolo in prigionia emotiva. Nei casi estremi, come quello del bambino triestino che già un anno prima della morte raccontava ai carabinieri di essere stato strangolato dalla madre, la violenza diventa un linguaggio quotidiano, un codice familiare che sostituisce la protezione con la paura. L’elemento più preoccupante, dal punto di vista sociologico, è l’incapacità della società di riconoscere in tempo questi segnali: denunce archiviate, rapporti dei servizi sociali sottovalutati, ammonimenti ignorati. Non si tratta solo di carenze istituzionali, ma di un immaginario collettivo che fatica a concepire la famiglia come possibile luogo di pericolo.

Da un punto di vista filosofico, il tema della violenza domestica si intreccia con la riflessione sul potere. Come ricordava Hannah Arendt, la violenza fiorisce dove fallisce il potere autentico, quello fondato sul consenso e sulla relazione. In famiglia, quando uno dei membri, spesso colui che detiene la forza fisica, l’autorità economica o il controllo emotivo, trasforma la relazione in dominazione, la violenza diventa lo strumento attraverso cui ristabilire un ordine distorto. Il filosofo Emmanuel Lévinas ha più volte insistito sull’alterità dell’altro come fondamento dell’etica: riconoscere il volto dell’altro significa riconoscerne la fragilità e l’irriducibile dignità. Eppure, nei casi di maltrattamento familiare, ciò che implode è proprio questa possibilità di riconoscimento: l’altro non è più un volto da accudire, ma un oggetto da controllare, un’estensione della propria volontà. L’abuso su un figlio o su un partner è l’atto estremo di questa negazione dell’alterità, il trionfo della logica dell’appropriazione. La sociologia ci mostra come il fenomeno affondi le radici nella struttura stessa dei rapporti sociali; la filosofia, dal canto suo, ci rivela la natura profonda di questa frattura, che avviene prima ancora che tra le persone, all’interno della coscienza. La violenza domestica non è solo un crimine: è una negazione dell’idea stessa di legame umano. Nei casi più drammatici, come quello della donna triestina seguita da anni dai servizi di salute mentale, si assiste a un collasso totale delle barriere che separano amore e distruzione, protezione e annientamento. La filosofia ci aiuta a comprendere come questo collasso sia il prodotto di una società che non educa alla responsabilità affettiva, alla gestione dei conflitti, alla cura dell’altro.

Ciò che emerge, al di là delle singole vicende, è la necessità di un nuovo patto sociale fondato sul riconoscimento della vulnerabilità come bene comune. Servono istituzioni più attente, reti di sostegno più solide, ma soprattutto una riflessione culturale collettiva sulla natura delle relazioni familiari. Finché la famiglia resterà un luogo percepito come impenetrabile, la violenza continuerà a trovare rifugio proprio lì dove dovrebbe esserci solo spazio per la tutela. Gli episodi di cronaca non sono dunque solo notizie, ma richiami a una responsabilità condivisa: quella di non distogliere lo sguardo, di credere alle vittime, di interpretare i segnali, di coltivare una cultura della cura che non lasci spazio alla sopraffazione. Solo così potremo sperare di trasformare la famiglia da luogo potenzialmente violento in ciò che dovrebbe essere: il primo spazio di umanità. Il quadro tracciato dall’OMS nel Report del maggio 2020 non è solo un insieme di numeri: è la rappresentazione di un mondo in cui l’infanzia continua a essere esposta a forme di violenza diversificate, pervasive e profondamente radicate nelle strutture sociali, culturali e familiari. I dati provenienti da 155 Paesi mostrano come la violenza sui bambini non sia un fenomeno circoscritto a contesti di povertà estrema, instabilità politica o conflitti armati, ma attraversi ogni continente e ogni classe sociale, insinuandosi nelle dinamiche quotidiane e nei rapporti più intimi.

Un miliardo di minori vittime di violenza ogni anno significa che uno su due, a livello globale, sperimenta almeno una forma di abuso, fisico, psicologico, sessuale o derivante da incuria, durante la crescita. È un numero che suggerisce una normalizzazione della violenza, un suo radicamento nel modo stesso in cui molte società concepiscono l’educazione, l’autorità e il controllo. Non a caso tre bambini su quattro tra i due e i quattro anni subiscono punizioni violente da parte dei caregiver: ciò rivela quanto sia diffusa l’idea che il corpo infantile possa essere modellato attraverso la coercizione, che la disciplina possa prevalere sul dialogo, che il bambino sia un soggetto da “addestrare” più che un individuo da accompagnare.

Ancora più devastante è il dato dei 40.150 bambini che ogni anno perdono la vita a causa della violenza. Non si tratta solo di omicidi, ma anche di decessi legati a maltrattamenti protratti, privazioni estreme, abbandono. Dietro quei numeri si nascondono storie di solitudini invisibili, spesso taciute dai sistemi familiari e non intercettate dai servizi di tutela. Eppure, questi morti rappresentano la punta di un iceberg molto più vasto: per ogni bambino che perde la vita, ve ne sono decine che restano segnati, talvolta per sempre, nelle loro capacità relazionali, cognitive ed emotive.

Il rapporto mette in luce anche la stretta correlazione tra violenza assistita e violenza subita. Un bambino su quattro sotto i cinque anni vive con una madre vittima di violenza domestica: significa crescere in un ambiente dove l’aggressività è una presenza costante, dove la paura sostituisce la sicurezza e dove il conflitto diventa la grammatica emotiva primaria.

Di Redazione

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