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Il Madremoto di Guido Fabrizi edito da Robin Edizioni

DiRedazione

Dic 19, 2022

Il Madremoto, un bel titolo inventato da Guido Fabrizi, scrittore schivo e tenace. La storia che racconta l’autore sbuca limpida e fresca da una antica fonte narrativa. E’ un racconto sincero e struggente che consiglio a chi ama storie vere, e cerca narrazioni che entrino con facilità nella rete emotiva del lettore.”

                                                                                                                                             (Dacia Maraini)

Questo romanzo potrebbe essere la storia esistenziale di ognuno di noi. È l’intreccio tra eventi accaduti, rielaborati nel tempo, e altri creati solo per essere letti. Una fusione di episodi reali e immaginati, dove verità e invenzione concorrono alla ricerca di un senso. Javier, il personaggio principale, ripercorre nella memoria meandri storico-familiari, laceranti e non, in luce e in ombra, momenti drammatici e occasioni di rinascita, di desiderio di pace, concatenando tutto in un abisso narrativo e letterario, libero da schemi di genere.

Veronica e Andrea Bocelli mi hanno salvato la vita.


Dopo ben sei interventi al viso, nel tentativo di sconfiggere un subdolo carcinoma, l’autore del romanzo si ritrova ad affrontare una settima recidiva col rischio di restare definitivamente sfigurato. È Federica, la sua compagna, a chiedere a Veronica e Andrea Bocelli di salvarlo da questo amaro destino. Attraverso la Fondazione ABF,Guidoviene affidato al Prof. Caggiati dell’IDI di Roma che, grazie alla tecnica chirurgica micrografica di Mohs, dopo una lunga ricostruzione facciale, scongiura il peggio dandogli la possibilità di avere un nuovo volto, di ritrovare una nuova energia. “Il Madremoto” non si limita al racconto del drammatico episodio vissuto da Guido, ma s’intreccia misterioso con la storia romanzesca di Javier, che, attraversando le asperità della vita, non perde mai il desiderio di evolversi, di rinascere, pur crescendo all’interno di una famiglia depressiva dominata da una madre patologica, che gli causerà un’adolescenza conflittuale al limite di un pericoloso baratro. La narrazione, partendo dalla Guerra Civile nei Paesi Baschi, attraversa l’Italia del ventennio, la Francia degli anni ’50, una Palermo a cavallo fra due feroci guerre di mafia, e l’inspiegabile scomparsa del fratello dall’esercito nel 1974, fino a arrivare ai giorni d’oggi. 

“Dentro la storia di un essere umano c’è la storia di ogni essere umano, basta cambiare di pochi gradi le coordinate.”

Il Madremoto
di Guido Fabrizi
edito da Robin Edizioni


Sono stato fotografo specializzato in arte medievale, collaborando per
più di un decennio con la Prof.ssa Angiola Maria Romanini, grande
medievalista, che dirigeva la redazione dell’Enciclopedia dell’Arte medievale
della Treccani, per la quale realizzavo campagne in giro per l’Europa a
fotografare monumenti gotici, romanici, pitture, sculture e reperti.
Parallelamente ho sempre scritto racconti, fin da adolescente, e ora mi
dedico alla scrittura cinematografica, trattamenti, qualche soggetto. Non
avrei mai pensato di avventurarmi nella scrittura di un romanzo se non fosse
accaduto un evento particolare. Non ho mai avuto la velleità di essere
definito scrittore, scrivevo solo per me stesso, condividendo i miei racconti
online. Soprattutto non ho mai amato molto il genere autobiografico
autocelebrativo, troppo incentrato su di un ego nell’attimo di spararsi un
selfie, si corre il rischio di costruire un personaggio autoreferenziale che
diventa misura di tutte le cose.
Certo, Il Madremoto parte da un evento personale, dove uno degli uomini
più famosi al mondo mi ha salvato letteralmente la vita. Questo episodio
costituisce uno dei pilastri fondamentali dei fili dell’architettura narrativa, ma
limitarmi al racconto della malattia, affrontata grazie a un personaggio noto,
mi sembrava troppo speculativo. Avrei potuto scrivere una cinquantina di cartelle, mettere su carta la cronaca di un momento difficile della mia vita,
ma non era quello che desideravo esprimere. Quindi mi sono liberato dalle
catene dell’autobiografia e mi sono addentrato in un incontro fra esperienza
vissuta e invenzione letteraria, affidando il racconto a Javier, il protagonista
della storia, un eteronimo con il quale spesso mi intrattengo a riflettere, ad
ascoltare le sue storie, a volte simili alle mie, altre totalmente differenti.
Per comprendere la genesi de Il Madremoto, bisogna andare indietro nel
tempo. Dal 2011 al 2017 sono stato operato per ben 7 volte al volto a causa
di un basalioma, un carcinoma fastidioso, di quelli rompiscatole, non così
nefasto come evoca il nome, di norma non va in giro per l’organismo, non fa
metastasi, ma lede il tessuto dove prolifica, creando una lesione sulla pelle
che va asportata chirurgicamente, eliminando così le cellule cancerogene.
Nel 2011 mi resi conto di avere una sorta di brufolo sulla guancia destra,
persistente, che dopo una visita dermatologica fu diagnosticato come
Basalioma. Primo intervento alla fine 2011, ma poi iniziò una sequenza di
ulteriori operazioni fino al 2017. Interventi dovuti a recidive, purtroppo
qualche cellula sfuggiva sempre al chirurgo dando vita, qualche mese dopo,
a un nuova lesione. Nessuno mi aveva mai detto che c’era una tecnica di
microchirurgia sofisticata, dove il chirurgo preleva piccole sezioni il tessuto
malato che sottopone in tempo reale all’analisi microscopica di un istologo,
fino ad escludere la presenza di ulteriori cellule cancerose. Dopodiché, pulito
tutto, si procede alla ricostruzione estetica della lesione. Un intervento
impegnativo, che va affidato ad un chirurgo plastico specializzato in
ongologia facciale. Un intervento costoso, che di solito si fa privatamente e che in quel momento della mia vita non potevo affrontare.
Non ho iniziato a scrivere partendo dal titolo, come spesso accade,
perché in quel momento era più importante il viaggio narrativo che stavo
facendo dentro di me. L’identità era comunque già contenuta negli elementi
della storia, bastava farla riemergere, così come fa un archeologo togliendo
delicatamente con un pennello la sabbia da un antico reperto. Un romanzo
finito nella sua prima stesura alla fine del 2019, e riscritto nel 2020 durante il
primo lockdown, quando tutto intorno a noi restava sospeso in un’atmosfera
surreale, fino ad allora sconosciuta. Una condizione in grado di far
riemergere dal profondo sensazioni lontane. È proprio attraversando quella
Roma deserta, metafisica, ma sempre splendida anche in quella
desolazione, che Il Madremoto mi ha travolto come uno tsunami. Una parola
che porta in sé l’intero romanzo, trasmettendo chiara l’immagine dell’impatto
che può generare una madre nei confronti di un figlio, nel bene e nel male.
Madremoto come evento drammatico, sismico, ma anche come moto
positivo di crescita innescato dalla relazione materna.
L’esigenza fotografica nasce da lontano, parallela a una necessità di
raccontare anche attraverso la scrittura. La fotografia congela una storia, dei
significati, un frammento di vita dove esiste un prima e un dopo quello
scatto. La scrittura racconta quel prima e quel dopo in un’inquadratura di
maggior respiro, e per fare questo descrive creando immagini, scatta
sequenze, mostra colori, stati d’animo, pensieri. Evoca. Quindi, non c’è un
passaggio netto fra fotografia e scrittura, perché i due linguaggi da sempre hanno fatto parte di me. Ho sempre scritto, anche da adolescente, con il
pensiero, con il cuore, sulla carta, su di una pellicola, e mentre vivo spesso
mi capita di trasformare, nella mia mente, la vita in una storia. Non si diventa
scrittori, lo si è, mantenendo quotidianamente acceso il desiderio di
migliorare attraverso la lettura, lo studio. Per quanto riguarda l’esperienza
professionale come fotografo è stata estremamente formativa, soprattutto da
un punto di vista culturale. Realizzare immagini di arte medievale, girando
l’Europa a riprendere opere antiche di immensa bellezza mi ha nutrito, e non
solo visivamente.
Ho sempre detto di avere radici aeree, perché non ho mai radicato in un
unico posto, circondato da amici storici, protetto da un ambiente sociale
stabile, rassicurante. Non sono cresciuto come uno stanziale, ma come un
nomade, per poi essere adottato da “Mamma Roma”, accogliente ma
incasinata, frastornante di giorno e splendida e profumata di notte, avvolta
da una luce calda, dando la sensazione che tutto possa accadere. Torino
invece è la città dove per la prima volta ho visto il mondo, dove ho respirato
il primo ossigeno, assaporato le prime caramelle, ma di quel periodo breve
ho solo immagini sfuocate, ricordi infantili, lontani, sensazioni che fanno
parte dell’essere. Rivisitandola nel tempo l’ho vissuta come un ritorno a
casa, sconosciuta, ma rassicurante. La “città magica” mi ha accolto
regalandomi belle esperienze, come una giornata trascorsa al Lingotto
insieme a Rambaldi, il creatore di ET, che mi ha fatto scoprire il tempio del
cinema custodito nella Mole Antonelliana. E poi, passeggiando al Balon, alla ricerca dei luoghi descritti da Fruttero e Lucentini ne “La ragazza della
domenica”. Questi sono i miei ricordi di Torino.
L’incontro con Robin è stato un evento salutare. Avevo ultimato da poco
la scrittura del romanzo e uscivamo dal primo lockdown. Tutto appariva
sovraccaricato da mesi di stallo, e il mondo dell’editoria traboccava di
progetti in lista di attesa. Considerando il periodo decisi di non lasciarmi
triturare dalle aspettative e archiviai il progetto. La grande editoria era al
collasso, non in grado di accogliere ulteriori proposte. Poi, un giorno,
navigando online mi sono imbattuto in un video dove un signore di nome
Claudio Maria Messina parlava con entusiasmo e passione della sua realtà
editoriale, impegnato alla ricerca di nuovi autori, intenzionato a resistere allo
schiacciasassi di un sistema editoriale che ormai non fa più tanto scouting
per motivi economici. Ricordo che mi ha detto “Oggi si pubblica tanto, forse
troppo, ma la cosa importante è distinguere uno scrittore vero da chi scrive
per sfogo personale, o per visibilità.” Quindi mi sono fatto avanti, e sono
stato accolto a braccia aperte.
La copertina è di Gipi, e Dacia Maraini mi ha regalato un suo pensiero
dopo aver letto il Madremoto. Dal mio punto di vista entrambi sono due
patrimoni dell’Umanità, due capacità di ascolto fuori dal comune, soprattutto
in quest’epoca dove si tende a sfuggire, a non provare interesse a
conoscere l’altro. Alcuni anni fa Dacia scriveva su di un forum rispondendo a
tutti con estrema generosità, e con la schiettezza che la contraddistingue. Mi
è capitato di sottoporle più di una volta alcune i miei racconti, alcuni miei dubbi. Poi, dopo la prima stesura del romanzo, decisi di scriverle per avere
un suo parere. In quel periodo di pausa pandemica, nell’estate 2020, era
subissata da cose da leggere e quindi la lasciai lavorare, non volevo
insistere. Dopo un po’ di tempo arrivò una sua mail dove mi diceva: “Caro
Guido, ci siamo!” e di seguito c’era un suo pensiero dedicato a “Il
Madremoto”. Emozionato da quel suo gesto ho scritto alcuni versi dedicati a
lei, e pubblicati alla fine del romanzo.
Il grande Gipi. Gianni Pacinotti. Inafferrabile stupenda creatura del
mondo del disegno. Penso che il suo sangue sia composto dalle terre che
adopera nei suoi acquarelli onirici. Ogni volta che guardo il suo lavoro non
posso fare a meno di constatare che da un conflitto può nascere bellezza, a
patto che si usi cuore e mente. Mi capitò di entrare nel suo romanzo a
disegni “La terra dei figli” dal quale ne uscii consapevole che per esprimere
quanto racchiuso ne Il Madremoto avevo bisogno di quello sguardo, occhi in
grado di dare voce visiva alla mia storia.
Gli scrissi una mail proponendogli di leggere il romanzo, ma anche lui
stava immerso nel suo lavoro, impregnato di colori, e mi rispose che non
aveva molto tempo da dedicare. Dopo circa un mese, il giorno del mio
compleanno, mi apparve sul monitor un’opera d’arte: un’illustrazione che
esprimeva perfettamente l’identità del titolo, e una frase di Gianni che
diceva: “Il Madremoto mi è entrato nella testa. Ho fatto questo per te, spero
che ti piaccia”. Che altro dire? Amo Gipi…Tornando al romanzo… La storia è raccontata da Javier, protagonista e
narratore, che nasce in un nucleo famigliare depressivo, disfunzionale,
dominato da una madre patologica, che, avendo subito dei traumi da
bambina, esercita sia violenza fisica che psicologica su ogni componente
della famiglia. Insieme a lei c’è un padre fragile, succube, non in grado di
opporsi, di intervenire ponendo fine a quella situazione. Due fratelli: Javier,
che racconta il suo vissuto cercando una salvezza nella memoria, senza
giudicare, e Fosco, il più grande, che scomparirà misteriosamente
dall’esercito, prezzo pagato per essere fuggito da quella condizione.
Il protagonista evaderà anche lui da quel contesto negativo, allontanandosi
da casa all’età di tredici anni, incontrando quanto di peggio poteva offrire la
strada a cavallo fra gli anni ’70/’80, fra droga, detenzioni, degrado umano,
ma non finirà male, salvato da coincidenze significative, da casualità causali
degli eventi, incontri positivi, e una forza vitale che gli permetterà di rialzarsi,
con una inesausta capacità di ricominciare.
È come se, nella memoria, Javier cercasse un’azione terapeutica per
comprendere il suo presente, nel desiderio di costruire un futuro migliore.
Quindi, partendo da un evento drammatico, dal mezzo della storia, comincia
a scavare nei ricordi, negli episodi famigliari vissuti da piccolo, o di memoria
trasmessa.
Partendo dalla Guerra Civil nei Paesi Baschi, attraversa l’Italia del
ventennio, la Francia degli anni ’50, una Palermo a cavallo fra due feroci
guerre di mafia, fino ad arrivare ai giorni d’oggi. Dentro ci sono tante cose,
c’è la vita: “dentro la storia di un essere umano c’è la storia di ogni essere
umano, basta cambiare di pochi gradi le coordinate”. Qualcuno ha definito questa storia un romanzo di formazione, se proprio
bisogna ricorrere a una definizione preferisco dire che Il Madremoto è un
Noir di vita che si espone alla ricerca di una luce. Dentro non c’è un
messaggio di redenzione, anche se al suo interno ci sono aspetti che vanno
oltre l’oggettività del reale, suggerendo, senza tentare di persuadere, un
punto di vista diverso su ciò che non riusciamo a spiegarci, tutto sommato
un pensiero figlio della fisica quantistica, dove tutto diviene possibile, dove
l’ascolto diviene essenziale per conoscere oltre il pregiudizio. Nella
narrazione degli eventi non c’è l’intenzione di condannare gli errori subiti o
quelli commessi dal protogranista, emerge la ricerca di un’identità, aperta
alla vita, nel desiderio di raggiungere uno stato evolutivo di maturazione. Si
diventa maturi non in seguito ad un esame, ma quando riusciamo a
trasformare il narcisismo dell’infanzia in empatia.
Ovviamente lo scrittore racconta sempre qualcosa di sè, del proprio
vissuto in prima persona o di vicende apprese da altri, rielaborate, anche nel
caso dove si dichiari una trascrizione fedele dei fatti. Non è importante
stabilire una mappa meticolosa delle verità perché, come scrive Carmine
Abate, autore che stimo molto, “Vera o inventata, una storia non mente mai.”
Quindi l’onestà è alla base della scrittura, altrimenti si corre il rischio di
diventare narratori inaffidabili di ruolo.
Attingere dal rapporto difficile con mia madre è stato terapeutico, il punto un percorso di pace iniziato da tempo. Nessuna condanna agli errori, agli
effetti collaterali di una pesante repressione, derivata chissà da quale
lontano malessere. Cercare di comprendere, senza però giustificare il male,
ci aiuta a crescere. Sta di fatto che nel percorso di Javier emergerà sempre
il desiderio di trovare figure genitoriali dalle quali rinascere, e questo non è
detto che rappresenti un punto debole.
Il rapporto fra una madre e un figlio, sia maschio che femmina,
rappresenta un momento delicatissimo della crescita di un individuo, dove
l’equilibrio fra attenzione e amore diviene elemento fondamentale. Eccessi o
carenze di questi due ingredienti vitali comportano salite esistenziali non
indifferenti, ma non impossibili da superare.
Quando si scrive una storia cambia sempre qualcosa dentro di noi,
continuamente, anche se viviamo nella convinzione di essere immutabili.
Scrivere un romanzo contribuisce a un cambio di prospettiva. Il pensiero di
restare sempre uguale a me stesso per tutta la vita mi terrorizza. Ho delle
cicatrici nel volto che raccontano parte della mia storia, segni che non
cancellerei neanche in cambio di un premio letterario.
Forse è per questo che scrivo compulsivamente racconti, da sempre.
Non posso farne a meno. Prima o poi forse li pubblicherò tutti insieme, visto
che negli ultimi anni questo genere narrativo viene apprezzato anche nel
nostro Paese. Attualmente sto lavorando su di un soggetto che poi,
passando per un trattamento, diventerà una sceneggiatura. Per quanto riguarda un nuovo romanzo al momento sto scrivendo un noir dove ho
ucciso definitivamente il commissario e mi sto concentrando sull’aspetto
oscuro di una società alla deriva, sempre intrecciando l’invenzione narrativa
con la realtà.
Oggi si abusa della parola resilienza come se fosse la soluzione a ogni
problema. Tutti nei momenti difficili mettiamo in atto un meccanismo di
sopravvivenza resiliente, ma ciò a cui dobbiamo mirare non è il continuare a
resistere, a sopportare all’infinito una condizione di difficoltà mettendo alla
prova la nostra capacità di resistenza, noi italiani siamo maestri in questo, ma
dobbiamo diventare apostoli di fiducia, consapevoli che fino all’ultimo
centimetro prima del baratro possiamo spiccare il volo, perché la resilienza
non ha senso se non è finalizzata a una rinascita.
“Di notte, mentre voi dormite, qua dentro sapete che faccio? Scrivo. Le
cose che vedo, quelle che penso, quelle che voglio dire, … diventano vere.
Riesco a dire quello che sento. Come io, nella vita, a voce non riesco a fare.
Sì, perché io non so parlare. Anche con voi, per esempio, quando mi fate
una domanda, mi viene voglia di dirvi “aspettate un attimo, adesso vado di
là, la scrivo, e ve la faccio leggere, così magari mi capite …riesco a
spiegarmi meglio” Questo voglio fare nella mia vita, voglio scrivere.”
Mine Vaganti

Di Redazione

Direttore : SERAFINI Stefano Per ogni necessità potete scrivere a : redazione@vocedelnordest.it

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