C’era una volta un uomo strano e solitario. Strano non perché vestisse in modo bizzarro o parlasse in maniera incomprensibile. No, il suo essere “strano” era di un altro tipo, più sottile, più profondo. Era strano perché amava il silenzio, e il silenzio lo amava a sua volta. Era strano perché si fermava a parlare con le montagne, e non lo faceva per gioco, ma con una serietà che avrebbe messo a disagio chiunque non fosse abituato ad ascoltare.
Osservava ogni cosa come se fosse la prima volta: il fumo che usciva dal camino, la neve che si scioglieva sul davanzale, il volo lento di un falco nel cielo d’inverno.
Era strano, sì, perché in un mondo dove tutti correvano verso qualcosa, lui sembrava aver deciso di rallentare.
Angelo era un custode. Il custode di ogni cosa. Viveva solo, in una piccola borgata di montagna nascosta tra le pieghe del Piemonte, un luogo che il tempo aveva quasi dimenticato. Era l’unico abitante rimasto, il guardiano silenzioso di case vuote e finestre chiuse.
Aveva le chiavi di tutte le porte, custodite con cura in una scatola di latta. Le case appartenevano a gente della città, che saliva solo d’estate o a Natale, giusto per ricordarsi di avere ancora un passato tra quei monti.
Ma quando loro se ne andavano, restava lui, con la sua calma antica e le sue mani screpolate. Angelo era il custode di quella borgata. Quando arrivava la neve, controllava che i tetti reggessero, che l’acqua non gelasse nelle tubature, che i vetri non si scheggiassero. Si prendeva cura di tutto come un padre silenzioso che non smette di amare anche quando nessuno lo vede. Ogni sera, prima di dormire, ringraziava la casa perché lo aveva accolto ancora una volta.
Ma quella borgata gli aveva affidato anche un altro compito, uno che nessuno conosceva.
Angelo era il custode di un segreto.
Lo sapeva solo lui, e forse anche il vento che correva tra i vecchi alberi di castagno. Era un segreto antico, nato molto prima di lui, tramandato con poche parole e mai scritto da nessuna parte.Voi, miei piccoli lettori curiosi, vorreste sapere subito di che si tratta.
Insomma, come in tutte le storie menestrellesche, c’è sempre un pizzico di magia che vi stupirà e… va bene, va bene, questa volta non vi farò aspettare troppo!
Allora…. eccovi spiegato il mistero.
Dicevamo che Angelo era il custode di un segreto della montagna.
Nelle notti limpide, quando la luna si specchiava nei tetti di pietra e il vento portava con sé un canto lontano, Angelo sentiva qualcosa muoversi tra gli alberi.
Non erano animali, no. I loro passi erano troppo leggeri, il loro canto troppo antico.
Erano le Fantine. Vestivano di foglie e di muschio, e portavano sul volto la calma dei boschi.
Abitavano tra gli abeti più vecchi, nei pressi delle sorgenti e delle rocce sacre, là dove gli uomini raramente arrivano.
Si diceva che fossero le guardiane della montagna: proteggevano gli alberi, i ruscelli, gli animali e tutto ciò che viveva sotto quel cielo.
Quando una frana minacciava il paese, erano loro a sussurrare al vento di cambiare direzione; quando la neve cadeva troppo copiosa, le Fantine vegliavano sui tetti delle case per alleggerirli.
Angelo non le aveva mai viste, ma le sentiva vicine.
Ogni volta che il bosco taceva d’improvviso o che una luce insolita attraversava la valle, sapeva che erano lì.
E spesso trovava strani segni: una pietra lucidata come uno specchio, posata nel punto esatto dove il sole colpiva al mattino; un cerchio perfetto nei prati, disegnato con fili d’erba di un verde più intenso, come se qualcuno li avesse intrecciati uno a uno durante la notte.
Sembravano piccole opere lasciate lì apposta, non per farsi scoprire, ma per farsi intuire — come messaggi silenziosi per chi sa guardare senza voler capire tutto.
Una notte d’inverno, però, accadde qualcosa di diverso.
Una scia di bagliore azzurro attraversò il bosco e si spense dietro il torrente.
Angelo posò la lanterna, prese il suo mantello e, con il cuore che batteva come quando si ha paura e meraviglia insieme, decise di seguirla.
Camminò tra gli alberi coperti di neve.
Poi, nella radura del vecchio faggio, la vide.
Una donna stava in piedi accanto all’acqua, alta, luminosa, avvolta in un mantello di foglie d’argento.
I suoi occhi riflettevano la luna e la sua voce, quando parlò, sembrava il canto del bosco stesso.
«Ti aspettavamo, custode della valle» disse. «Sai ascoltare e rispettare la montagna, e chi ascolta appartiene al bosco quanto le radici e il vento.»
Angelo rimase muto, ma dentro di sé sentì che tutto ciò che aveva amato — il silenzio, la solitudine, la montagna — gli stava finalmente parlando con voce umana.
La donna, che portava il nome di Lùna, si avvicinò e posò una mano lieve sulla corteccia del faggio.
«È cominciato, custode,» disse con voce grave. «La montagna si sta muovendo. Da tempo qualcosa si agita nelle profondità del monte, e presto noi sole non basteremo a trattenerlo. Il tuo cuore, Angelo, è puro come l’acqua delle sorgenti: per questo ti abbiamo scelto.»
Angelo la fissò senza capire.
«Trattenere cosa?»
Lùna si avvicinò e, con un gesto, fece apparire e danzare una fiamma azzurra tra le sue mani.
Non bruciava, ma si muoveva come un essere vivo, danzando al ritmo del suo respiro.
Il chiarore si fece dorato, poi azzurro, poi bianco, e dentro quella luce Angelo cominciò a vedere delle immagini. Vide montagne spoglie, trafitte da strade e gallerie. Alberi abbattuti, torrenti secchi, animali in fuga.
I villaggi erano pieni di fumo, e l’aria aveva un suono cupo, come un lamento sommesso.
Poi la visione cambiò: vide uomini stanchi, con occhi vuoti, incapaci di sentire la voce della montagna. E infine, vide la Fiamma che si spegneva, lasciando il mondo avvolto da una luce grigia e spenta.
«Sotto le nostre radici,» spiegò Lùna, «vive qualcosa di antico. Qualcosa che dormiva da secoli. È la memoria del fuoco che ha formato queste rocce, la rabbia della terra quando fu ferita.
Noi lo abbiamo tenuto a bada, placato con i canti e le acque sacre delle sorgenti. Ma ora gli uomini rubano al monte ciò che non appartiene loro. Il sonno si spezza, e noi non bastiamo più.»
«La montagna è in collera, custode» disse. «È stanca degli uomini che la feriscono. Sotto terra scavano come talpe cieche, aprendo miniere sempre più profonde, succhiandole il respiro e il silenzio. E sopra… la bruciano. Accendono fuochi che divorano i boschi, tagliano alberi vecchi come la memoria del mondo, e poi se ne vanno lasciandola nuda, spoglia come una madre derubata dei suoi figli.»
Angelo rimase in silenzio. Sentì un brivido percorrergli la schiena, come se la montagna stessa lo avesse toccato per fargli sentire la sua rabbia. Lùna abbassò lo sguardo e aggiunse:
«Noi Fantine abbiamo custodito i suoi segreti per secoli. Abbiamo fatto nascere i torrenti, protetto le radici e guidato il volo degli uccelli.
Ma ora non possiamo più trattenere la sua voce. Sta per gridare, e quando lo farà, nessuno potrà ignorarla.»
Un tuono lontano rimbombò tra le valli, anche se il cielo era limpido. Angelo alzò lo sguardo e disse, preoccupato: «E io cosa posso fare? Io sono solo un uomo…»
Lùna lo fissò. I suoi occhi, profondi come laghi d’inverno, riflettevano la fiamma.
«Tu puoi parlare agli uomini come noi non possiamo. La tua voce è la chiave.
Devi farli ricordare. Devi mostrare loro che ogni albero che cade, ogni roccia che si spacca, è un dolore nel corpo della montagna.
Parla loro con verità, ma anche con bellezza. Fai in modo che tornino a sentire.»
Poi gli porse la Fiamma. Era piccola, ma viva, come un cuore pulsante tra le sue mani.
«Questa ti guiderà,» disse Lùna. «Non serve per bruciare, ma per illuminare. Ti mostrerà chi è pronto ad ascoltare e chi è perso nel rumore del mondo.
Ma attento: la Fiamma non tollera la menzogna. Se il tuo cuore vacillerà, anche lei si spegnerà.»
Angelo prese la Fiamma con rispetto.
La luce gli scaldò il petto e gli tremò tra le dita. «E se non mi crederanno?» domandò piano.
Lùna sorrise, un sorriso lieve come il canto di un ruscello. «Allora lasciali ridere.
Tu semina la parola come vento tra i pini. Anche se non germoglierà subito, un giorno tornerà la pioggia, e la montagna ricorderà chi l’ha amata.»
«Ora va’. Il tempo della montagna è più lento di quello degli uomini, ma la sua pazienza non è infinita.»
E con quelle parole, la Fantina svanì nella nebbia, lasciandolo solo con il silenzio del bosco e il battito leggero della Fiamma nel cuore.
Angelo percorse i sentieri che scendevano dalle valli alte, dove la neve si scioglieva ancora tra i ruscelli freddi. Quando arrivò alle borgate, trovò uomini indaffarati a tagliare alberi, a scavare, a costruire case di cemento dove un tempo sorgevano stalle di pietra e larice.
Si avvicinò al primo gruppo di boscaioli e parlò con voce ferma:
«La montagna è viva. Vi guarda, vi sente. Sta soffrendo.»
Gli uomini risero. Uno di loro, con la barba impolverata di segatura, disse:
«Vai a raccontarle queste storie ai bambini, custode. Torna lassù tra le tue pietre e lascia che gli uomini lavorino!»
Angelo non si arrese. Scese ancora più giù, fino al paese grande, e parlò alla piazza, al mercato, al prete, al sindaco. Ma più parlava, più la gente lo guardava come si guarda un folle.
«La montagna non si arrabbia» dicevano. «La montagna serve. È nostra. E noi ne faremo ciò che vogliamo.»
Allora, una notte, il silenzio si ruppe. La montagna si scrollò. Le sue viscere tremarono come un tuono profondo.
Le miniere cominciarono a crollare una dopo l’altra, inghiottendo i cunicoli dove gli uomini avevano scavato troppo. I boschi gemettero, e gli alberi, sradicati, si piegarono come in un inchino disperato. I torrenti si gonfiarono, trascinando con sé ponti, muretti, attrezzi, memorie.
La terra si spaccò in più punti e dalle fessure emerse un bagliore rosso, una lava lenta e calda come il respiro di un drago addormentato da secoli.
Angelo corse tra le case in rovina, cercando di avvisare chi poteva. Molti scapparono senza capire, altri bestemmiavano contro quella terra che credevano ormai domata.
Quando tutto sembrò perduto, Angelo si inginocchiò tra le rovine di una vecchia borgata. Mise le mani a terra e sussurrò:
«Basta. Hanno capito. Ti prego, fermati.»
Ma la montagna non rispose. Il suo dolore era ormai troppo profondo, troppo antico. Il terreno tremò ancora, le crepe si aprirono come ferite incandescenti e un ruggito di pietra e fuoco scosse l’aria. Le case crollarono una dopo l’altra, e il cielo si riempì di cenere e lampi.
Angelo alzò lo sguardo disperato e gridò: «Luna! Fiamma! Aiutatemi!»
E allora, tra il fumo e la polvere, accadde qualcosa.
Dal cuore della terra, là dove Angelo aveva lasciato la cenere della Fiamma Azzurra, si levò una luce sottile, tremante come il respiro di un neonato. Non era fuoco, non era vento: era una voce di luce. La Fiamma si ridestò, e la sua luce azzurra cominciò a salire, spiraleggiante, fino a toccare il cielo. Ogni suo bagliore toccava un albero, una pietra, una casa in rovina, e da ciascuno di quei punti si levava un suono — un canto profondo, simile al respiro della montagna stessa.
Gli uomini, fuggiti nei campi o inginocchiati tra le macerie, si fermarono. Le mani ancora sporche di terra e paura tremavano, ma per la prima volta sentirono.
Sentirono la vita che vibrava sotto di loro.
La montagna non era un ammasso di rocce: era una creatura viva, antica, ferita.
Uno dopo l’altro, gli uomini piansero. Si avvicinarono ad Angelo, e con la voce spezzata dissero: «Abbiamo sbagliato. Non abbiamo ascoltato. Perdonaci.»
E la Fiamma, come se avesse atteso quelle parole da secoli, si aprì in mille raggi. Il suo calore non bruciava: guariva.
Le crepe si richiusero, le acque tornarono limpide, gli alberi piegati si raddrizzarono, e le pietre spezzate delle case si riunirono in forma nuova, come se la montagna stessa le stesse ricucendo con fili di luce.
Il silenzio che seguì era pieno di vita. Un silenzio sacro, come un respiro trattenuto dopo la preghiera.
Angelo, esausto, restò inginocchiato. Sentì il suolo pulsare sotto le sue mani e la voce di Luna, lontana ma dolce, che gli sussurrava:
«Hai fatto ciò che doveva essere fatto. Non hai salvato gli uomini, li hai fatti ricordare.»
E nel cielo, dove poco prima c’erano solo nubi e cenere, comparve un’aurora azzurra, come una carezza che univa il mondo degli spiriti e quello degli uomini.
Da allora, ogni volta che un uomo dimenticava la gratitudine, una piccola luce azzurra si accendeva tra le rocce, a ricordare che la montagna non appartiene a nessuno, ma tutti apparteniamo a lei.
Da quel giorno, gli uomini cominciarono a cambiare.
Non più padroni, ma figli della montagna.
La chiamarono Madre, e impararono a vivere facendosi nutrire e non servire, ad ascoltare prima di chiedere, a camminare senza ferire.
Angelo, invece, non tornò più a vivere tra le case. Scelse di restare dove finiva il bosco e cominciava il cielo, nel luogo in cui la Fiamma si era spenta per rinascere nel cuore degli uomini.
Lì, costruì una piccola dimora di pietra e muschio.
Non aveva porte, solo finestre aperte verso le stelle. E ogni notte, quando il vento scendeva dalle vette e il canto dei ruscelli si faceva più chiaro, Angelo posava le mani sulla terra e ascoltava.
Quello era il suo nuovo compito: custodire l’equilibrio, proteggere il silenzio, ricordare a chi passava di lì che la montagna non dorme mai.
A volte i viandanti lo incontravano, seduto accanto al fuoco, con gli occhi pieni di luce e le dita annerite di terra. Non diceva molto, ma offriva sempre una tazza d’acqua fresca e un pezzo di pane. E a chi restava a lungo abbastanza per ascoltare, sussurrava solo:
«Ascolta… la montagna parla piano, ma dice tutto.»
Da allora, nella valle, nessuno dimenticò più il nome del custode.
E ancora oggi, quando una frana si placa o una sorgente torna a scorrere limpida, i vecchi dicono sorridendo:
«È Angelo che veglia. La montagna non è sola.»
Buona notte miei piccoli lettori
By likegod ©
